Buongiorno cari lettori, eccoci a un'altra tappa della rubrica "La vostra voce" , un'idea nata in collaborazione con il blog Un tè con la Palma, per dare voce e spazio ai vostri scritti.
Oggi vi parleremo di "Bugie a fin di male" di Claira Bennett.
Questa storia ve la racconteranno in due: Chris, la giovane protagonista, e Jesse, un ragazzo che forse si è solo trovato nel posto sbagliato al momento sbagliato.
Chris ha perso sua sorella, di appena tredici anni. Si è buttata da un tetto.
E su quel tetto c’era anche Jesse. Che cosa le ha detto? Perché non è riuscito a farla scendere? Perché non è riuscito a salvarla? Forse non è colpa sua.
Ma dopo una settimana anche Jesse perde suo fratello. Ha solo otto anni, ma viene assassinato.
Allora non ci sono più dubbi: è vendetta.
In due visioni differenti, sempre offuscate dall’abuso di alcol e droga di chi sta raccontando, toccherà a voi scegliere di chi fidarvi. Tutti e due proveranno a convincervi della propria innocenza.
Sarà una partita, tra Chris e Jesse, a farvi decidere da che parte stare.
Ecco 𝟱 buoni 𝗺𝗼𝘁𝗶𝘃𝗶 𝗽𝗲𝗿 𝗹𝗲𝗴𝗴𝗲𝗿e il romanzo:
- Mi dispiace, ma ogni motivo che mi viene in mente suona presuntuoso, come se stessi auto-elogiando il mio lavoro. L'unica cosa che posso dire è: mi piacerebbe che lo leggeste perché, nonostante sia un esordio, ho studiato per anni le regole del thriller canonico e poi le ho destrutturate. Forse è stato un azzardo, forse no, ma proprio per questo mi candido: il vostro parere mi sarà d'aiuto per riflettere sulle scelte che ho fatto.
Estratto 1:
Passai da Hollywood Boulevard guidando piano, cercando di
soffocare qualsiasi emozione per diventare un automa davanti a
Riley.
Il sole di Los Angeles mi era sempre sembrato falso, ma quel
giorno me lo stava dicendo in faccia. Non riusciva a
nascondere la natura di quella città; c’era sempre, ma non
riscaldava mai abbastanza. Lʼombra del degrado si vedeva
anche in pieno giorno.
Provavo a scappare da quella foschia osservando le coppiette
in vacanza che fotografavano ogni stella sul marciapiede, ogni
vecchia insegna, ogni incrocio, ma conoscevo troppo bene la
vera identità di quelle strade. Vedevo solo il ragazzino
incappucciato che faceva finta di stringere la mano a tutti, per
scambiare una bustina con i soldi; vedevo la prostituta ispanica
che se ne stava seduta tutto il giorno dentro un negozio,
aspettando che calasse il sole per togliersi la divisa e
appoggiarsi al palo come faceva da anni; vedevo la scimmietta
affacciata alla finestra, addestrata per calarsi da una fune sulle
macchine che si fermavano sotto al palazzo per comprare dosi
massicce.
Io quel fondo non lʼavevo solo toccato: ne avevo fatto la mia
casa. Ma allʼidea di Riley sarei voluta uscire di lì. Avevo
rischiato già una volta di finire dentro per colpa sua; dover
ricominciare quella storia da capo mi faceva passare la voglia
di vivere.
Mi scrollai da quei pensieri quando arrivai alla centrale: se
avevo vinto la prima battaglia, potevo vincere anche la
seconda. Decisa a non mostrargli alcun cenno di
preoccupazione o di paura, mi fermai al bancone dellʼentrata e
chiamai lʼattenzione di un agente.
«Prego?» chiese, con le mani sulla cintura.
«Il detective Riley mi aspetta.»
Mi squadrò dalla testa ai piedi, con la bocca incrinata in un
ghigno. Fece un cenno con la testa per dirmi di seguirlo. Mi
guidò in uno dei corridoi fin troppo illuminati e mi lasciò
davanti allʼultima porta della fila.
«Buona fortuna.»
Esisteva qualcuno al mondo a non sapere che Riley fosse un
bastardo? Bussai una volta ed entrai senza aspettare che
rispondesse.
Si era messo comodo, con una sigaretta tra i denti, le gambe
accavallate e i gomiti sui braccioli.
Il neon accecante sopra di lui creava ombre sulla pelle scura
del viso, facendo risaltare gli occhi neri, che mi guardavano
con molto più odio di quanto ricordassi. Mi sedetti di fronte a
lui, dallʼaltro lato del tavolo, adottando la sua stessa posizione.
Accesi una sigaretta, lanciai il pacchetto sul tavolo e alla fine
inchiodai gli occhi nei suoi, in attesa che iniziasse il solito rito.
Mi guardò, inespressivo, poi si schiarì la gola.
«Sai, Burt, ad Atene la vendetta personale era molto più
che… legittima. Era considerata una cosa importante, un
dovere sociale.» Fece cadere la cenere che si era accumulata
sulla sigaretta e tornò in posizione. «Ma poi lo vietarono… Sai
perché?» Unʼaltra pausa a effetto, facendo un tiro abbondante.
«Quelli che si vendicavano… che cercavano giustizia da soli,
finivano sopraffatti dal senso di colpa. Così tanto da iniziare a
fregarsene delle conseguenze e delle ritorsioni che
provocavano a loro stessi. Si stavano auto distruggendo.»
Mi guardai attorno aspirando una boccata e tornai su di lui.
Aveva fatto centro. Da centinaia di miglia di distanza.
«Allora?»
«Allora… quanto li hai pagati?» chiese in un sorriso.
Indicai gli occhiali da sole che avevo in testa. «Questi?
Qualcosa come mille dollari, credo.»
Scosse la testa, ridendo, e infilò la sigaretta dentro la tazza
del caffè.
«Smettila con queste stronzate, sai a cosa mi riferisco.»
«Oh… allora la trovo una domanda alquanto incompleta.
Potresti essere più preciso?»
«Dubito che tu lʼabbia ucciso con le tue mani, quindi…
quanto li hai pagati i tuoi amici per farlo fuori?»
Sorrisi a mia volta, ma quando mi fulminò sbuffai e tornai
seria.
«Non ho idea di cosa tu stia parlando, detective.»
«Perché devi farmi perdere tempo? Sappiamo come sono
andate le cose.»
«Sono qui da tre minuti e ancora non mi hai fatto una
domanda che avesse senso. Tu stai facendo perdere tempo a
me, e stai sprecando il tuo.»
«Senti, bambola, non ho alcun dubbio su tutta questa storia,
devo solo trovare un tuo errore per dimostrarlo.»
«Alcun dubbio?» ripetei, con un sopracciglio inarcato. «Sei
parecchio presuntuoso.»
«Oh, andiamo…» sbuffò, passandosi la mano sulla testa
ispida. «Quello butta giù tua sorella da un palazzo, dopo una
settimana suo fratello muore e io dovrei credere che la divina
provvidenza cʼentri qualcosa? Forse non succederà domani, ma
per quanto mi riguarda sei già dentro.»
«E se lo dice Josh Riley è vero.»
«Sei solo una ragazzina capricciosa che fa tutto quello che
vuole con i soldi di papà» commentò, mentre girava intorno
alla scrivania per piazzarsi di fronte a me. «Quelli come te non
mi piacciono.»
«Tu sei solo uno sbirro frustrato, e con questo?»
Ci guardammo a lungo e alla fine mi alzai, fermandomi per
un secondo a un soffio dal suo naso. Spensi la sigaretta nel
bicchiere dietro di lui.
«Non ho ucciso io quel bambino» confessai. «E in ogni caso
non ti piace chiunque sia bianco e ricco. Chiamami quando
avrai qualcosa per cui mettermi dentro.»
Gli diedi le spalle e andai dritta alla porta.
«Qualcosa come il nostro piccolo Hammond?»
Strinsi la maniglia, come se potessi scaricarci la tensione che
mi sentivo addosso.
Lo guardai appoggiare il culo sul tavolo. «Cazzo, Burt, è
solo un ragazzino. Potevi semplicemente fare una soffiata e
consegnarmelo. Dovevi per forza massacrarlo di botte?
Possibile che vuoi stare sempre dalla parte sbagliata?»
Stavo quasi per andare via, ma mi venne da ridere.
«Sul serio? Tu? Tu parli della parte sbagliata?»
«Chiudi la porta.»
«Vaffanculo. Sbaglio o prendi ancora la tua percentuale dal
mio giro?»
Balzò giù e con un passo raggiunse la porta e la chiuse. Si
fermò a pochi centimetri dalla mia faccia, io rimasi incastrata
nellʼangolo.
«Stai attenta, ragazzina.»
Quando arrivò a puntare sullʼetà, capii che aveva solo quello
per sentirsi superiore. Il passo che mancava per sfiorarci lo feci
io. «Stai attento tu, detective. Sei solo un poliziotto, quello che
guadagnerai ogni mese per il resto della vita io lʼho guadagnato
già. Non provare a venire in tribunale con me, finirai i soldi per
pagare gli avvocati quando io avrò appena iniziato.»
Mi fissò per un istante poi, con calma, andò a sedersi.
«Non preoccuparti per il resto della mia vita, preoccupati per
il tuo.»
Tornò alla stessa identica posizione di prima, con la stessa
identica espressione ermetica. Quando distolse lo sguardo per
accendere unʼaltra sigaretta, lasciai la stanza.
Uscii dalla centrale alla svelta, strabuzzando gli occhi
davanti allʼorologio che diceva che erano passati solo quindici
minuti. A me era sembrata unʼora.
soffocare qualsiasi emozione per diventare un automa davanti a
Riley.
Il sole di Los Angeles mi era sempre sembrato falso, ma quel
giorno me lo stava dicendo in faccia. Non riusciva a
nascondere la natura di quella città; c’era sempre, ma non
riscaldava mai abbastanza. Lʼombra del degrado si vedeva
anche in pieno giorno.
Provavo a scappare da quella foschia osservando le coppiette
in vacanza che fotografavano ogni stella sul marciapiede, ogni
vecchia insegna, ogni incrocio, ma conoscevo troppo bene la
vera identità di quelle strade. Vedevo solo il ragazzino
incappucciato che faceva finta di stringere la mano a tutti, per
scambiare una bustina con i soldi; vedevo la prostituta ispanica
che se ne stava seduta tutto il giorno dentro un negozio,
aspettando che calasse il sole per togliersi la divisa e
appoggiarsi al palo come faceva da anni; vedevo la scimmietta
affacciata alla finestra, addestrata per calarsi da una fune sulle
macchine che si fermavano sotto al palazzo per comprare dosi
massicce.
Io quel fondo non lʼavevo solo toccato: ne avevo fatto la mia
casa. Ma allʼidea di Riley sarei voluta uscire di lì. Avevo
rischiato già una volta di finire dentro per colpa sua; dover
ricominciare quella storia da capo mi faceva passare la voglia
di vivere.
Mi scrollai da quei pensieri quando arrivai alla centrale: se
avevo vinto la prima battaglia, potevo vincere anche la
seconda. Decisa a non mostrargli alcun cenno di
preoccupazione o di paura, mi fermai al bancone dellʼentrata e
chiamai lʼattenzione di un agente.
«Prego?» chiese, con le mani sulla cintura.
«Il detective Riley mi aspetta.»
Mi squadrò dalla testa ai piedi, con la bocca incrinata in un
ghigno. Fece un cenno con la testa per dirmi di seguirlo. Mi
guidò in uno dei corridoi fin troppo illuminati e mi lasciò
davanti allʼultima porta della fila.
«Buona fortuna.»
Esisteva qualcuno al mondo a non sapere che Riley fosse un
bastardo? Bussai una volta ed entrai senza aspettare che
rispondesse.
Si era messo comodo, con una sigaretta tra i denti, le gambe
accavallate e i gomiti sui braccioli.
Il neon accecante sopra di lui creava ombre sulla pelle scura
del viso, facendo risaltare gli occhi neri, che mi guardavano
con molto più odio di quanto ricordassi. Mi sedetti di fronte a
lui, dallʼaltro lato del tavolo, adottando la sua stessa posizione.
Accesi una sigaretta, lanciai il pacchetto sul tavolo e alla fine
inchiodai gli occhi nei suoi, in attesa che iniziasse il solito rito.
Mi guardò, inespressivo, poi si schiarì la gola.
«Sai, Burt, ad Atene la vendetta personale era molto più
che… legittima. Era considerata una cosa importante, un
dovere sociale.» Fece cadere la cenere che si era accumulata
sulla sigaretta e tornò in posizione. «Ma poi lo vietarono… Sai
perché?» Unʼaltra pausa a effetto, facendo un tiro abbondante.
«Quelli che si vendicavano… che cercavano giustizia da soli,
finivano sopraffatti dal senso di colpa. Così tanto da iniziare a
fregarsene delle conseguenze e delle ritorsioni che
provocavano a loro stessi. Si stavano auto distruggendo.»
Mi guardai attorno aspirando una boccata e tornai su di lui.
Aveva fatto centro. Da centinaia di miglia di distanza.
«Allora?»
«Allora… quanto li hai pagati?» chiese in un sorriso.
Indicai gli occhiali da sole che avevo in testa. «Questi?
Qualcosa come mille dollari, credo.»
Scosse la testa, ridendo, e infilò la sigaretta dentro la tazza
del caffè.
«Smettila con queste stronzate, sai a cosa mi riferisco.»
«Oh… allora la trovo una domanda alquanto incompleta.
Potresti essere più preciso?»
«Dubito che tu lʼabbia ucciso con le tue mani, quindi…
quanto li hai pagati i tuoi amici per farlo fuori?»
Sorrisi a mia volta, ma quando mi fulminò sbuffai e tornai
seria.
«Non ho idea di cosa tu stia parlando, detective.»
«Perché devi farmi perdere tempo? Sappiamo come sono
andate le cose.»
«Sono qui da tre minuti e ancora non mi hai fatto una
domanda che avesse senso. Tu stai facendo perdere tempo a
me, e stai sprecando il tuo.»
«Senti, bambola, non ho alcun dubbio su tutta questa storia,
devo solo trovare un tuo errore per dimostrarlo.»
«Alcun dubbio?» ripetei, con un sopracciglio inarcato. «Sei
parecchio presuntuoso.»
«Oh, andiamo…» sbuffò, passandosi la mano sulla testa
ispida. «Quello butta giù tua sorella da un palazzo, dopo una
settimana suo fratello muore e io dovrei credere che la divina
provvidenza cʼentri qualcosa? Forse non succederà domani, ma
per quanto mi riguarda sei già dentro.»
«E se lo dice Josh Riley è vero.»
«Sei solo una ragazzina capricciosa che fa tutto quello che
vuole con i soldi di papà» commentò, mentre girava intorno
alla scrivania per piazzarsi di fronte a me. «Quelli come te non
mi piacciono.»
«Tu sei solo uno sbirro frustrato, e con questo?»
Ci guardammo a lungo e alla fine mi alzai, fermandomi per
un secondo a un soffio dal suo naso. Spensi la sigaretta nel
bicchiere dietro di lui.
«Non ho ucciso io quel bambino» confessai. «E in ogni caso
non ti piace chiunque sia bianco e ricco. Chiamami quando
avrai qualcosa per cui mettermi dentro.»
Gli diedi le spalle e andai dritta alla porta.
«Qualcosa come il nostro piccolo Hammond?»
Strinsi la maniglia, come se potessi scaricarci la tensione che
mi sentivo addosso.
Lo guardai appoggiare il culo sul tavolo. «Cazzo, Burt, è
solo un ragazzino. Potevi semplicemente fare una soffiata e
consegnarmelo. Dovevi per forza massacrarlo di botte?
Possibile che vuoi stare sempre dalla parte sbagliata?»
Stavo quasi per andare via, ma mi venne da ridere.
«Sul serio? Tu? Tu parli della parte sbagliata?»
«Chiudi la porta.»
«Vaffanculo. Sbaglio o prendi ancora la tua percentuale dal
mio giro?»
Balzò giù e con un passo raggiunse la porta e la chiuse. Si
fermò a pochi centimetri dalla mia faccia, io rimasi incastrata
nellʼangolo.
«Stai attenta, ragazzina.»
Quando arrivò a puntare sullʼetà, capii che aveva solo quello
per sentirsi superiore. Il passo che mancava per sfiorarci lo feci
io. «Stai attento tu, detective. Sei solo un poliziotto, quello che
guadagnerai ogni mese per il resto della vita io lʼho guadagnato
già. Non provare a venire in tribunale con me, finirai i soldi per
pagare gli avvocati quando io avrò appena iniziato.»
Mi fissò per un istante poi, con calma, andò a sedersi.
«Non preoccuparti per il resto della mia vita, preoccupati per
il tuo.»
Tornò alla stessa identica posizione di prima, con la stessa
identica espressione ermetica. Quando distolse lo sguardo per
accendere unʼaltra sigaretta, lasciai la stanza.
Uscii dalla centrale alla svelta, strabuzzando gli occhi
davanti allʼorologio che diceva che erano passati solo quindici
minuti. A me era sembrata unʼora.
Estratto 2:
Buttai giù qualche sorso dʼacqua dalla bottiglietta e andai verso
la porta, ma poi tornai indietro allo specchio.
Ero bloccato così da un quarto dʼora: il mio riflesso diceva di
tirarmi indietro, io lo mandavo al diavolo e lui mi richiamava
se provavo a uscire di casa.
Valutai lʼopzione di andare allʼaeroporto e non fare ritorno,
poi ne valutai unʼaltra: salire in moto, parcheggiare sopra la
macchina di Chris Burton, firmare il contratto e tornare a casa.
Ci provai e in parte ci riuscii, ma solo dopo aver fatto fuori
una striscia di cocaina e dopo aver impanato una sigaretta con
le tracce rimaste sul tavolo. Lasciai la moto sul marciapiede e
rimasi immobile sulle scalinate a guardare la punta del
grattacielo Burton. Volevo davvero mischiarmi a quelli in
giacca e cravatta che entravano e uscivano da lì? Tutti di fretta,
sempre, con quelle ventiquattrore orribili che per quanto erano
piene sembravano bombe a orologeria.
Il primo passo lʼavevo fatto, mancavano solo entrare e
firmare. Non poteva essere così difficile, ero abituato a isolare
una parte del cervello, a prenderlo, e quindi prendermi, in giro;
un poʼ come quando i miei amici mi costrinsero a mangiare le
palle di un cavallo morto per unʼinfezione. Anziché sviare lo
sguardo come gli altri, io guardai intensamente quel pezzo di
carne strana e dissi a me stesso che quelle non erano le fottute
palle di un cavallo. E funzionò. Fui lʼunico a non sputare e
vomitare e fui quello che svuotò il piatto.
Cosʼera scrivere il proprio nome su un pezzo di carta, in
confronto a quello? Mi risposi da solo: niente.
A bloccarmi unʼaltra volta, però, fu il corpo di Julie spalmato
sui gradini. Era passato più di un mese dalla sua morte, ma
quellʼimmagine nella mia testa non aveva perso un pixel.
I miei pensieri continuavano a mangiarsi lʼun lʼaltro: il
primo si faceva più piccolo e veniva inghiottito da uno più
grande, poi anche quello si faceva più piccolo e veniva
inghiottito a sua volta. Julie, Sam, mio padre, mia madre. Era
una matriosca e lʼultimo pezzo, che conteneva tutti gli altri, era
Chris. Odiavo che fosse lei la base di ogni pensiero.
Con quel fastidio addosso decisi di entrare e farla finita, ma
quando da lontano la vidi seduta nel suo ufficio, attraverso il
vetro, mi congelai per lʼennesima volta. La cocaina era inutile:
quella stronza mi dava i brividi. Ma a lei di sicuro faccio paura
io, pensai, e con quella convinzione arrivai a passo certo
davanti alla sua porta.
Entrai e mi fermai sulla soglia, lei alzò gli occhi dal portatile
e sorrise. Prima che potessi chiedermi il perché di quel
mostruoso sorriso amabile, vidi Daniel nellʼufficio accanto che
si alzava dalla poltrona. Anziché fare il giro per entrare, prese
una porta invisibile che univa i due uffici enormi dallʼinterno.
«Jesse, ben arrivato, grazie per la puntualità» disse,
stringendomi la mano. «Accomodati, vi lascio da soli.»
Notai subito che suo padre era sfatto: sudato, con i capelli in
disordine, la cravatta allentata e i primi bottoni della camicia
aperti. Sembrava nevrotico.
«Sì, Jesse, siediti» si intromise Chris, ancora con quel
sorriso. «Vuoi scusarmi un istante?»
Guidò con gentilezza suo padre verso la porta, poi entrò con
lui nel suo ufficio. Non sentii una parola, ma la vidi rimetterlo
in sesto: gli asciugò la faccia con un fazzoletto, gli sistemò i
bottoni e la cravatta e gli pettinò i capelli con le dita. Lui annuì,
poi riprese posto dietro la scrivania. Alla fine gli strinse le
spalle e si allontanò.
«Io mi sigillo qui dentro, se ti chiede di me digli che non ci
sono, mh?» disse, prima di chiudere la porta.
Schiacciò un bottone e dentro le pareti di vetro iniziò a
scendere una specie di enorme e spesso foglio bianco. Si fermò
a guardarmi.
«Per favore, siediti» ripeté, indicando la sedia.
Capii cosa vedevano gli altri. Sembrava unʼelegante e
affidabile donna in carriera. I capelli, che adesso sfioravano
appena le spalle, le davano unʼaria ancora più spigolosa di
prima. Gelida e spigolosa: erano questi gli unici aggettivi con
cui riuscivo a descrivere la sua figura. In pratica vedevo un
iceberg.
Contro ogni volontà, appoggiai il casco sulla scrivania
mastodontica che ci separava e mi sedetti di fronte a lei. Puntò
i gomiti per intrecciare le mani sotto il mento e rinnovò il
sorriso.
«Allora, Jesse, cʼera molto traffico? Perché a questʼora
solitam…» e le pareti bianche toccarono terra. Emise un
grugnito primitivo e buttò indietro la testa. «Aah… Cristo.»
Si alzò come se pesasse cento chili e prese un bicchiere di
whiskey dal tavolino dei liquori, poi tornò a sedersi. Era
meccanica.
Sbatté i piedi sullʼangolo della scrivania, accese una
sigaretta, sorso di whiskey e mi guardò di nuovo.
«Vuoi firmare quel contratto, Cohen? Dʼaccordo, fallo…»
Non mi ero nemmeno accorto che fosse già lì, una pila di fogli
e una penna. «Ma non pensare di poter cambiare idea, dopo. Se
firmi porti a termine il progetto con quelli di Macao. Non mi
faccio fottere la possibilità più grossa della carriera. Non da
te.»
Alle sue spalle, una porzione abbondante di Los Angeles
sembrava prostrarsi ai suoi piedi. La vista toglieva il fiato.
Da quando quel sorriso falso era scomparso mi sentivo
meglio, ma ancora non trovavo le parole. Forse il punto era che
non volevo trovarle. Mi alzai e svuotai il suo whiskey.
«Certo» dissi, prima di raccogliere il contratto e il casco.
Andai verso la porta, deciso a non aggiungere altro.
«Di già? Non riesci a stare nella stessa stanza con me per più
di cinque minuti?»
Risi. «La questione è che non voglio.»
«Esatto!» esclamò, puntandomi contro il dito mentre tornava
al tavolino dei liquori. «E allora perché cazzo vuoi firmare quel
contratto?» Mi guardò e allargò le braccia, bottiglia in una
mano e bicchiere nellʼaltra. Quando le unì, il whiskey
gorgogliò nel bicchiere. «Cinque minuti sono una fottuta
gocciolina del tempo che dovrai passare con me… se firmi.»
Sprofondò con poca grazia nella poltrona e riprese a
guardarmi.
«Tempo in cui sarai costretto a parlarmi, a stare con me sullo
stesso aereo… a cenare con me e con un consiglio
dʼamministrazione assortito dai più vecchi stronzi razzisti che
abbia mai conosciuto.»
Mi chiesi meccanicamente di cosa stesse parlando, quindi mi
arresi. Aveva vinto: aveva attirato la mia attenzione. Appoggiai
di nuovo il casco, tornai a sedermi e iniziai a sfogliare il
contratto, alzandolo tra la mia e la sua faccia.
«Cinesi razzisti?»
«Mi prendi per il culo?»
«No, ti ascolto» dissi, abbassando per un istante i fogli per
guardarla. «Il mio nome qui, in basso a destra… e poi? Vai
avanti, parlami di come mi pentirò se accetto.»
La sentii ridere. «Nah, troppo scontato. In mezzo a quella
ventina di fogli che hai in mano cʼè una clausola di
riservatezza… retroattiva. Il tuo nome lì, in basso a destra, e
quello che sai o che saprai di me diventerà ufficialmente, ma
soprattutto legalmente, una cosa tra noi due.»
Abbassai del tutto il contratto. «Col cazzo.»
«Oh, be’… grazie comunque per essere passato, Jesse»
esclamò sorridendo, mentre si alzava in piedi.
«Frena» dissi quando provò a prendere il contratto. Tornai a
sfogliarlo e cercai la clausola, ma non dovetti sforzarmi: era
una pagina intera. «È un accordo reciproco, Chris. Sei sicura di
volerlo?»
«E tu?» chiese, piazzandosi di fronte a me. «Sei ancora in
tempo per rinunciare.»
Mi alzai anch’io e la sovrastai finché non dovette sollevare la
testa per guardarmi. «Neanche se ti inginocchi ad implorarmi.»
Le rubai il bicchiere e mi ci persi dentro con gli occhi. Mi
venne da sorridere. «Certo… sempre che tu, in ginocchio, non
ti ci metta per qualcosʼaltro… In quel caso potrei pensarci.»
Quando mi sembrò di essere riuscito a tirare fuori un poʼ di
strafottenza, la sua vicinanza tirò fuori di nuovo lʼangoscia:
averla così vicina provocò emozioni contrastanti. Una parte di
me era scossa dai brividi; lʼaltra si sentiva potente, in confronto
a lei. Ricordava le mani intorno al suo collo.
«Anzi, sai cosa ti dico? Neanche in quel caso potrei
pensarci.»
Lottai per tenermi stretta quella briciola di arroganza che era
emersa un attimo prima, reprimendo il desiderio di distogliere
lo sguardo.
Ma a distoglierlo per un attimo fu lei, che prese il contratto e
me lo schiacciò sullo stomaco.
«Allora firma e levati dalle palle.»
Rimasi immobile, come lei, ignorando il pensiero che quei
pochi fogli fossero lʼunica cosa a separarci. Eliminai del tutto
la distanza facendo un ulteriore passo, finché la sua mano, che
ancora mi premeva sullo stomaco, rimase incastrata tra il suo
corpo e il mio. Mandò ancora più indietro la testa, perché
incrociassimo lo sguardo.
«Pensi davvero di farmi paura, Chris?»
Sorrise e mi squadrò veloce dallʼalto in basso. «E tu pensi di
farmi paura perché sei più alto di me, Jesse?»
Mi uscì unʼaltra risata. «Questo… teatrino, che hai messo
su… Non prendi in giro nessuno. Sai di essere impotente.»
Ignorai anche il suo respiro che si faceva più vivo, arrivandomi
alle labbra. «La scelta è mia, tu non puoi farci nulla. Puoi solo
sperare che io dia retta a quel poco di buonsenso che mi
rimane.»
Sorrise ancora, e alla fine deviò lo sguardo. «Conosco il
buonsenso, Jesse. Sono sicura che il tuo ti abbia abbandonato
qualche striscia fa.»
la porta, ma poi tornai indietro allo specchio.
Ero bloccato così da un quarto dʼora: il mio riflesso diceva di
tirarmi indietro, io lo mandavo al diavolo e lui mi richiamava
se provavo a uscire di casa.
Valutai lʼopzione di andare allʼaeroporto e non fare ritorno,
poi ne valutai unʼaltra: salire in moto, parcheggiare sopra la
macchina di Chris Burton, firmare il contratto e tornare a casa.
Ci provai e in parte ci riuscii, ma solo dopo aver fatto fuori
una striscia di cocaina e dopo aver impanato una sigaretta con
le tracce rimaste sul tavolo. Lasciai la moto sul marciapiede e
rimasi immobile sulle scalinate a guardare la punta del
grattacielo Burton. Volevo davvero mischiarmi a quelli in
giacca e cravatta che entravano e uscivano da lì? Tutti di fretta,
sempre, con quelle ventiquattrore orribili che per quanto erano
piene sembravano bombe a orologeria.
Il primo passo lʼavevo fatto, mancavano solo entrare e
firmare. Non poteva essere così difficile, ero abituato a isolare
una parte del cervello, a prenderlo, e quindi prendermi, in giro;
un poʼ come quando i miei amici mi costrinsero a mangiare le
palle di un cavallo morto per unʼinfezione. Anziché sviare lo
sguardo come gli altri, io guardai intensamente quel pezzo di
carne strana e dissi a me stesso che quelle non erano le fottute
palle di un cavallo. E funzionò. Fui lʼunico a non sputare e
vomitare e fui quello che svuotò il piatto.
Cosʼera scrivere il proprio nome su un pezzo di carta, in
confronto a quello? Mi risposi da solo: niente.
A bloccarmi unʼaltra volta, però, fu il corpo di Julie spalmato
sui gradini. Era passato più di un mese dalla sua morte, ma
quellʼimmagine nella mia testa non aveva perso un pixel.
I miei pensieri continuavano a mangiarsi lʼun lʼaltro: il
primo si faceva più piccolo e veniva inghiottito da uno più
grande, poi anche quello si faceva più piccolo e veniva
inghiottito a sua volta. Julie, Sam, mio padre, mia madre. Era
una matriosca e lʼultimo pezzo, che conteneva tutti gli altri, era
Chris. Odiavo che fosse lei la base di ogni pensiero.
Con quel fastidio addosso decisi di entrare e farla finita, ma
quando da lontano la vidi seduta nel suo ufficio, attraverso il
vetro, mi congelai per lʼennesima volta. La cocaina era inutile:
quella stronza mi dava i brividi. Ma a lei di sicuro faccio paura
io, pensai, e con quella convinzione arrivai a passo certo
davanti alla sua porta.
Entrai e mi fermai sulla soglia, lei alzò gli occhi dal portatile
e sorrise. Prima che potessi chiedermi il perché di quel
mostruoso sorriso amabile, vidi Daniel nellʼufficio accanto che
si alzava dalla poltrona. Anziché fare il giro per entrare, prese
una porta invisibile che univa i due uffici enormi dallʼinterno.
«Jesse, ben arrivato, grazie per la puntualità» disse,
stringendomi la mano. «Accomodati, vi lascio da soli.»
Notai subito che suo padre era sfatto: sudato, con i capelli in
disordine, la cravatta allentata e i primi bottoni della camicia
aperti. Sembrava nevrotico.
«Sì, Jesse, siediti» si intromise Chris, ancora con quel
sorriso. «Vuoi scusarmi un istante?»
Guidò con gentilezza suo padre verso la porta, poi entrò con
lui nel suo ufficio. Non sentii una parola, ma la vidi rimetterlo
in sesto: gli asciugò la faccia con un fazzoletto, gli sistemò i
bottoni e la cravatta e gli pettinò i capelli con le dita. Lui annuì,
poi riprese posto dietro la scrivania. Alla fine gli strinse le
spalle e si allontanò.
«Io mi sigillo qui dentro, se ti chiede di me digli che non ci
sono, mh?» disse, prima di chiudere la porta.
Schiacciò un bottone e dentro le pareti di vetro iniziò a
scendere una specie di enorme e spesso foglio bianco. Si fermò
a guardarmi.
«Per favore, siediti» ripeté, indicando la sedia.
Capii cosa vedevano gli altri. Sembrava unʼelegante e
affidabile donna in carriera. I capelli, che adesso sfioravano
appena le spalle, le davano unʼaria ancora più spigolosa di
prima. Gelida e spigolosa: erano questi gli unici aggettivi con
cui riuscivo a descrivere la sua figura. In pratica vedevo un
iceberg.
Contro ogni volontà, appoggiai il casco sulla scrivania
mastodontica che ci separava e mi sedetti di fronte a lei. Puntò
i gomiti per intrecciare le mani sotto il mento e rinnovò il
sorriso.
«Allora, Jesse, cʼera molto traffico? Perché a questʼora
solitam…» e le pareti bianche toccarono terra. Emise un
grugnito primitivo e buttò indietro la testa. «Aah… Cristo.»
Si alzò come se pesasse cento chili e prese un bicchiere di
whiskey dal tavolino dei liquori, poi tornò a sedersi. Era
meccanica.
Sbatté i piedi sullʼangolo della scrivania, accese una
sigaretta, sorso di whiskey e mi guardò di nuovo.
«Vuoi firmare quel contratto, Cohen? Dʼaccordo, fallo…»
Non mi ero nemmeno accorto che fosse già lì, una pila di fogli
e una penna. «Ma non pensare di poter cambiare idea, dopo. Se
firmi porti a termine il progetto con quelli di Macao. Non mi
faccio fottere la possibilità più grossa della carriera. Non da
te.»
Alle sue spalle, una porzione abbondante di Los Angeles
sembrava prostrarsi ai suoi piedi. La vista toglieva il fiato.
Da quando quel sorriso falso era scomparso mi sentivo
meglio, ma ancora non trovavo le parole. Forse il punto era che
non volevo trovarle. Mi alzai e svuotai il suo whiskey.
«Certo» dissi, prima di raccogliere il contratto e il casco.
Andai verso la porta, deciso a non aggiungere altro.
«Di già? Non riesci a stare nella stessa stanza con me per più
di cinque minuti?»
Risi. «La questione è che non voglio.»
«Esatto!» esclamò, puntandomi contro il dito mentre tornava
al tavolino dei liquori. «E allora perché cazzo vuoi firmare quel
contratto?» Mi guardò e allargò le braccia, bottiglia in una
mano e bicchiere nellʼaltra. Quando le unì, il whiskey
gorgogliò nel bicchiere. «Cinque minuti sono una fottuta
gocciolina del tempo che dovrai passare con me… se firmi.»
Sprofondò con poca grazia nella poltrona e riprese a
guardarmi.
«Tempo in cui sarai costretto a parlarmi, a stare con me sullo
stesso aereo… a cenare con me e con un consiglio
dʼamministrazione assortito dai più vecchi stronzi razzisti che
abbia mai conosciuto.»
Mi chiesi meccanicamente di cosa stesse parlando, quindi mi
arresi. Aveva vinto: aveva attirato la mia attenzione. Appoggiai
di nuovo il casco, tornai a sedermi e iniziai a sfogliare il
contratto, alzandolo tra la mia e la sua faccia.
«Cinesi razzisti?»
«Mi prendi per il culo?»
«No, ti ascolto» dissi, abbassando per un istante i fogli per
guardarla. «Il mio nome qui, in basso a destra… e poi? Vai
avanti, parlami di come mi pentirò se accetto.»
La sentii ridere. «Nah, troppo scontato. In mezzo a quella
ventina di fogli che hai in mano cʼè una clausola di
riservatezza… retroattiva. Il tuo nome lì, in basso a destra, e
quello che sai o che saprai di me diventerà ufficialmente, ma
soprattutto legalmente, una cosa tra noi due.»
Abbassai del tutto il contratto. «Col cazzo.»
«Oh, be’… grazie comunque per essere passato, Jesse»
esclamò sorridendo, mentre si alzava in piedi.
«Frena» dissi quando provò a prendere il contratto. Tornai a
sfogliarlo e cercai la clausola, ma non dovetti sforzarmi: era
una pagina intera. «È un accordo reciproco, Chris. Sei sicura di
volerlo?»
«E tu?» chiese, piazzandosi di fronte a me. «Sei ancora in
tempo per rinunciare.»
Mi alzai anch’io e la sovrastai finché non dovette sollevare la
testa per guardarmi. «Neanche se ti inginocchi ad implorarmi.»
Le rubai il bicchiere e mi ci persi dentro con gli occhi. Mi
venne da sorridere. «Certo… sempre che tu, in ginocchio, non
ti ci metta per qualcosʼaltro… In quel caso potrei pensarci.»
Quando mi sembrò di essere riuscito a tirare fuori un poʼ di
strafottenza, la sua vicinanza tirò fuori di nuovo lʼangoscia:
averla così vicina provocò emozioni contrastanti. Una parte di
me era scossa dai brividi; lʼaltra si sentiva potente, in confronto
a lei. Ricordava le mani intorno al suo collo.
«Anzi, sai cosa ti dico? Neanche in quel caso potrei
pensarci.»
Lottai per tenermi stretta quella briciola di arroganza che era
emersa un attimo prima, reprimendo il desiderio di distogliere
lo sguardo.
Ma a distoglierlo per un attimo fu lei, che prese il contratto e
me lo schiacciò sullo stomaco.
«Allora firma e levati dalle palle.»
Rimasi immobile, come lei, ignorando il pensiero che quei
pochi fogli fossero lʼunica cosa a separarci. Eliminai del tutto
la distanza facendo un ulteriore passo, finché la sua mano, che
ancora mi premeva sullo stomaco, rimase incastrata tra il suo
corpo e il mio. Mandò ancora più indietro la testa, perché
incrociassimo lo sguardo.
«Pensi davvero di farmi paura, Chris?»
Sorrise e mi squadrò veloce dallʼalto in basso. «E tu pensi di
farmi paura perché sei più alto di me, Jesse?»
Mi uscì unʼaltra risata. «Questo… teatrino, che hai messo
su… Non prendi in giro nessuno. Sai di essere impotente.»
Ignorai anche il suo respiro che si faceva più vivo, arrivandomi
alle labbra. «La scelta è mia, tu non puoi farci nulla. Puoi solo
sperare che io dia retta a quel poco di buonsenso che mi
rimane.»
Sorrise ancora, e alla fine deviò lo sguardo. «Conosco il
buonsenso, Jesse. Sono sicura che il tuo ti abbia abbandonato
qualche striscia fa.»
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